- Non credo di averla mai vista qui.
- Infatti.
- Da dove viene?
- Davvero le interessa?
Mi volto. Un uomo. I capelli brizzolati, uno sguardo abituato a osservare. Le mani nelle tasche e le labbra dal disegno mutevole. Sorride. Ricambio, ma senza certezza. Distolgo gli occhi.
- Perché non dovrebbe interessarmi?
- Le persone non sono mai davvero interessate al “chi eri”, ma al “chi sei”.
- Difficile capire, senza entrambe le cose.
Un soffio calmo, la sua voce.
Ritorno sul suo viso. Stavolta lo guardo istintivamente in modo curioso, dal basso dove mi trovo seduta, verso l’alto dove lui è in piedi.
Ha gli occhi verso il mare. Poi li lancia su di me.
Il casino delle onde tortura la spiaggia.
Il cattivo tempo sta arrivando a rendere meno chiara questa parte di cielo.
Si siede. Riprende a guardarmi serio, senza parlare.
Mi lascio guardare.
Il cielo ora però è più bello, così pieno di nuvole nere.
- Sono qui perché non riesco più a scrivere.
Dico in un attimo e lo sento sospirare.
- Credo sia un posto perfetto, allora.
- E lei?
- Da dove vengo o perché sono qui?
- Entrambe.
Gli sorridono gli occhi a quest’uomo quando parla.
- Abito qui, ma vengo da lontano. Sono sulla spiaggia, perché l’ho vista, credevo non si fermasse più, è così tanto che cammina...
Fa una pausa poi prosegue senza esitare.
- … e perché voglio smettere di scrivere.
Mi volto, anche con le spalle, per guardarlo meglio. Le sue mani ora vicino al viso, sono racconti e parole. Prosegue.
- Io e lei dovremmo scambiarci la vita.
Lo sento ridere.
E non resisto. Rido anch’io. Una risata che non sento in me, da giorni.
Ha un bel suono la sua risata.
Il mondo difettoso su cui mi sento, rallenta e smette di girare. Ricomincio piano a respirare.
I suoi occhi ancora sorridono quando si alza e si allontana di qualche passo.
- Sta per piovere. Deve rientrare. Però non vada via. Abbiamo qualcosa da scambiarci io e lei. Ci sarà domani?
- Accenno con la testa ad un sì, e quel sì gli basta.
- Mi chiamo Luce.
Non so se mi ha sentito.
- Mauro. Tutti mi chiamano Marte. Lei sta nella casa di Nedo, giusto? Mi ha avvisato del suo arrivo. Ho aperto io la casa. Si è raccomandato per lei.
- Sì, starò qui qualche giorno. È stato gentile.
Ci guardiamo senza muoverci per qualche secondo.
- Non sembra una delle donne di Nedo.
- Infatti non lo sono.
- Mi dirà allora chi è lei, Luce?
- Se mi dirà chi è lei, Marte. Non sembra un amico di Nedo.
Ride. Poi lo vedo andare.
15.4.19
12.11.18
CAPITOLO 1 - INTRODUZIONE - Disegnare nella mente
Disegnare è un gesto semplice. Non c’è un modo. Un solo modo, intendo. Non c’è giusto o sbagliato. Scarabocchio, bozzetto, segno grafico, quadro. C’è il fare, in modo personale.
La parola “disegnare” deriva da “signum” che significa “segno”, ed è proprio con un gesto in cui usiamo un “segno” che, consapevolmente o inconsapevolmente, esprimiamo una parte significativa di noi.
“Signum”, come termine, è collegato al verbo tagliare, risulta quindi il prodotto di un taglio. Lo sapeva bene Lucio Fontana: “[…] io buco; passa l’infinito di lì, passa la luce, non c’è bisogno di dipingere […] invece tutti hanno pensato che io volessi distruggere: ma non è vero io ho costruito, non distrutto.”.
Il disegno è un passaggio, una via, un trasportare noi stessi, fuori. Anche in un appunto. In una scritta veloce. In una calligrafia. Ricreiamo un mondo che ci descrive. Un invisibile reso visibile.
Lo facciamo anche quando comunichiamo. Disegniamo nell’altro. La parola diventa strumento. Il pensiero segno che si muove nella mente. Così anche con la scrittura. Vuole essere disegno, ricerca di un passaggio, dalla punta delle dita alla mente di chi legge.
È questo quello che ora farò. Inizierò a disegnare una storia. La scriverò qui. A mio modo. Con i tempi che ho a disposizione. Scriverò e disegnerò una storia. E se vorrete, mi leggerete, mi lascerete passare.
Paul Klee è riuscito nel suo bel mondo che si è sempre creato a tirare fuori una frase che adoro: “Il disegno è l’arte di condurre una linea a fare una passeggiata.” Sorrido, anche quando camminiamo, stiamo disegnando.
Post dopo post racconterò la storia di un incontro. Di gesti. Di intenti. Di sentimenti. Andrò a comporre la forma che la vita assume, quando ad un certo punto desidera rivelare perché siamo qui. Quando svela il disegno che siamo.
Un piccolo gesto da niente, che è quello che mi piace fare. Saranno parole di passaggio collegate in una storia, per amplificare la voglia di idee, dentro di me, dentro di voi, se vorrete.
---
Quadro di Lucio Fontana "Concetto Spaziale, Attese" 1968 Tecnica mista
Attesa (o attese in caso di più tagli, in questo caso 7, il mio numero preferito) è come chiama le sue tele lacerate Lucio Fontana. Trovo che non poteva pensare ad un titolo mentalmente più adatto e intrigante di questo per costruire uno spazio a parole alternativo, forte e penetrante come i tagli. L’attesa è dopotutto uno squarcio nella nostra esistenza, un pensiero che può vagare, che ci consente di proiettarci fuori.
Accanto mia figlia Viola alle prese con i gessetti per strada. Lei si sdraia e disegna intorno a lei. Non potevo non farle una foto. Gioca e fa sognare il mio mondo. Lei per me è poesia.
La parola “disegnare” deriva da “signum” che significa “segno”, ed è proprio con un gesto in cui usiamo un “segno” che, consapevolmente o inconsapevolmente, esprimiamo una parte significativa di noi.
“Signum”, come termine, è collegato al verbo tagliare, risulta quindi il prodotto di un taglio. Lo sapeva bene Lucio Fontana: “[…] io buco; passa l’infinito di lì, passa la luce, non c’è bisogno di dipingere […] invece tutti hanno pensato che io volessi distruggere: ma non è vero io ho costruito, non distrutto.”.
Il disegno è un passaggio, una via, un trasportare noi stessi, fuori. Anche in un appunto. In una scritta veloce. In una calligrafia. Ricreiamo un mondo che ci descrive. Un invisibile reso visibile.
Lo facciamo anche quando comunichiamo. Disegniamo nell’altro. La parola diventa strumento. Il pensiero segno che si muove nella mente. Così anche con la scrittura. Vuole essere disegno, ricerca di un passaggio, dalla punta delle dita alla mente di chi legge.
È questo quello che ora farò. Inizierò a disegnare una storia. La scriverò qui. A mio modo. Con i tempi che ho a disposizione. Scriverò e disegnerò una storia. E se vorrete, mi leggerete, mi lascerete passare.
Paul Klee è riuscito nel suo bel mondo che si è sempre creato a tirare fuori una frase che adoro: “Il disegno è l’arte di condurre una linea a fare una passeggiata.” Sorrido, anche quando camminiamo, stiamo disegnando.
Post dopo post racconterò la storia di un incontro. Di gesti. Di intenti. Di sentimenti. Andrò a comporre la forma che la vita assume, quando ad un certo punto desidera rivelare perché siamo qui. Quando svela il disegno che siamo.
Un piccolo gesto da niente, che è quello che mi piace fare. Saranno parole di passaggio collegate in una storia, per amplificare la voglia di idee, dentro di me, dentro di voi, se vorrete.
---
Quadro di Lucio Fontana "Concetto Spaziale, Attese" 1968 Tecnica mista
Attesa (o attese in caso di più tagli, in questo caso 7, il mio numero preferito) è come chiama le sue tele lacerate Lucio Fontana. Trovo che non poteva pensare ad un titolo mentalmente più adatto e intrigante di questo per costruire uno spazio a parole alternativo, forte e penetrante come i tagli. L’attesa è dopotutto uno squarcio nella nostra esistenza, un pensiero che può vagare, che ci consente di proiettarci fuori.
Accanto mia figlia Viola alle prese con i gessetti per strada. Lei si sdraia e disegna intorno a lei. Non potevo non farle una foto. Gioca e fa sognare il mio mondo. Lei per me è poesia.
29.8.18
Fuori dimensione
Con i suoi sei centimetri sopra il metro a volte la vedo piccola in un mondo troppo grande.
Eppure il suo coraggio di movimento e definizione di sé nello spazio è la cosa più bella e fragile di lei. È la cosa che forse nel guardarla, cattura di più la mia attenzione. Non voglio che la perda mai. Non solo in lei, c’è anche in altri bambini. Non in tutti. Molti sono spaesati, confusi. Sembrano proprio mancare di quella raggiante e vigorosa sicurezza così istintiva.
La distanza dal soffitto e dalle pareti di una stanza. Quella è una misura. Il suo essere piccola rispetto allo spazio presente. Mi sono sempre preoccupata di non farla sentire fuori misura, ma a misura, anche dei suoi pensieri. Una sedia per lei, un tavolo, le posate, pedane ovunque per salire alle vette degli adulti, strumenti per attività a tua misura, cibo non fuori dimensione, zainetto per farci stare praticamente dentro un’oliva, giochi per la sua età, per le sue mani. Perchè nella vita bisogna sentirsi così, a misura, nella giusta dimensione per non sentire paura.
Se ci proiettiamo fuori da noi senza vederci troppo piccoli o troppo grandi è già un grande inizio.
Come sono sempre fuori posto le persone che non sentono la propria dimensione, avete notato?
È una cosa che si determina anche con la crescita, sì certo, con le esperienze, focalizziamo chi siamo e determiniamo una forma di noi stessi. Una forma che muta, anche di dimensione. Però sta tutto in un punto ben preciso questo meccanismo e non è nella crescita, non è nel trasformarci (lo facciamo per tutta la vita), sta nel pensiero che ha un preciso sentire. Essere dimensionalmente vivi.
La questione è di sentire, di percepire cosa siamo dentro, senza la confusione che può innescare l'evidenza del fuori dimensione quando siamo piccoli e poi adulti. Di non avere paura.
La paura è anche una "cosa" sana. Ma questa no, questa confonde la vita, come un rumore continuo di sottofondo.
La paura se ce l’hai, se te la mettono addosso, ce l’hai per tutta la vita. O quasi. Per togliertela di dosso prima ci muori, poi rinasci. Funziona solo così.
Mi assicurerò che lei, la sua misura, non la perda mai.
Eppure il suo coraggio di movimento e definizione di sé nello spazio è la cosa più bella e fragile di lei. È la cosa che forse nel guardarla, cattura di più la mia attenzione. Non voglio che la perda mai. Non solo in lei, c’è anche in altri bambini. Non in tutti. Molti sono spaesati, confusi. Sembrano proprio mancare di quella raggiante e vigorosa sicurezza così istintiva.
La distanza dal soffitto e dalle pareti di una stanza. Quella è una misura. Il suo essere piccola rispetto allo spazio presente. Mi sono sempre preoccupata di non farla sentire fuori misura, ma a misura, anche dei suoi pensieri. Una sedia per lei, un tavolo, le posate, pedane ovunque per salire alle vette degli adulti, strumenti per attività a tua misura, cibo non fuori dimensione, zainetto per farci stare praticamente dentro un’oliva, giochi per la sua età, per le sue mani. Perchè nella vita bisogna sentirsi così, a misura, nella giusta dimensione per non sentire paura.
Se ci proiettiamo fuori da noi senza vederci troppo piccoli o troppo grandi è già un grande inizio.
Come sono sempre fuori posto le persone che non sentono la propria dimensione, avete notato?
È una cosa che si determina anche con la crescita, sì certo, con le esperienze, focalizziamo chi siamo e determiniamo una forma di noi stessi. Una forma che muta, anche di dimensione. Però sta tutto in un punto ben preciso questo meccanismo e non è nella crescita, non è nel trasformarci (lo facciamo per tutta la vita), sta nel pensiero che ha un preciso sentire. Essere dimensionalmente vivi.
La questione è di sentire, di percepire cosa siamo dentro, senza la confusione che può innescare l'evidenza del fuori dimensione quando siamo piccoli e poi adulti. Di non avere paura.
La paura è anche una "cosa" sana. Ma questa no, questa confonde la vita, come un rumore continuo di sottofondo.
La paura se ce l’hai, se te la mettono addosso, ce l’hai per tutta la vita. O quasi. Per togliertela di dosso prima ci muori, poi rinasci. Funziona solo così.
Mi assicurerò che lei, la sua misura, non la perda mai.
25.8.18
Ricominciare a sognare
Ho sognato un mondo di carta, fatto di case e strade con fogli ripiegati. Foreste, boschi e deserti di carta. Anche un cielo azzurro stropicciato e un po’ strappato. Qualche nuvola volumetrica qua e là, costruita sapientemente. Le pagine quasi bianche, scarti di qualche scrittore.
Ho guardato persone di carta velina attraversare la strada. Ci vedevo attraverso il mondo che si colorava al loro passaggio. Trasparenti e fragili destinati a distruggersi o a salvarsi proteggendosi il cuore senza sosta. Ho visto grattacieli di carte crollare per un soffio di vento, svettanti, bellissimi e senza stabilità. Mi sono passati vicino uomini di carta vetrata dall’aspetto ruvido e travolgente. Li ho sfiorati per farmi consapevolmente solo male. E poi una donna di cartoncino rigido e patinato che si atteggiava a un’idea di perfezione così comica da farmi sorridere. È passata veloce, come il tempo che occorre alla finzione per essere smascherata da chi è scaltro.
Mi sono innamorata delle stelle di carta lucida che sono comparse dappertutto appena è scesa la notte nella sua carta nera vellutata e bellissima da toccare. L’ho toccata sapete, ho toccato la notte e ho capito che così non l’avrei più rivista. Alla mia portata, grande quanto potevo vedere, non di più. Ho spostato le stelle prima più vicine, poi più lontane. Ci ho giocato un po’, come può fare un bambino e poi l’ho strappata. Sì, in mille pezzi. Ci sono saltata dentro e poi con tutta la rabbia che potevo l’ho stretta tra le mani e pezzo per pezzo l’ho distrutta per sempre. Per il mio per sempre.
La luna è caduta con uno schianto terribile. Una pesante sfera di carta piena di coriandoli che è esplosa alle mie spalle facendomi cadere. Quella pioggia ha ricoperto la città come la cenere di un vulcano esploso. A terra non sentivo e vedevo più nulla. Quando sono riuscita ad alzarmi la città già era scomparsa. Il bianco, un bianco infinito. Solo io in piedi tra carte stropicciate e milioni di coriandoli bianchi consapevole di aver distrutto tutto. E in quel bianco, sì proprio lì, ho ricominciato a sognare.
Ho guardato persone di carta velina attraversare la strada. Ci vedevo attraverso il mondo che si colorava al loro passaggio. Trasparenti e fragili destinati a distruggersi o a salvarsi proteggendosi il cuore senza sosta. Ho visto grattacieli di carte crollare per un soffio di vento, svettanti, bellissimi e senza stabilità. Mi sono passati vicino uomini di carta vetrata dall’aspetto ruvido e travolgente. Li ho sfiorati per farmi consapevolmente solo male. E poi una donna di cartoncino rigido e patinato che si atteggiava a un’idea di perfezione così comica da farmi sorridere. È passata veloce, come il tempo che occorre alla finzione per essere smascherata da chi è scaltro.
Mi sono innamorata delle stelle di carta lucida che sono comparse dappertutto appena è scesa la notte nella sua carta nera vellutata e bellissima da toccare. L’ho toccata sapete, ho toccato la notte e ho capito che così non l’avrei più rivista. Alla mia portata, grande quanto potevo vedere, non di più. Ho spostato le stelle prima più vicine, poi più lontane. Ci ho giocato un po’, come può fare un bambino e poi l’ho strappata. Sì, in mille pezzi. Ci sono saltata dentro e poi con tutta la rabbia che potevo l’ho stretta tra le mani e pezzo per pezzo l’ho distrutta per sempre. Per il mio per sempre.
La luna è caduta con uno schianto terribile. Una pesante sfera di carta piena di coriandoli che è esplosa alle mie spalle facendomi cadere. Quella pioggia ha ricoperto la città come la cenere di un vulcano esploso. A terra non sentivo e vedevo più nulla. Quando sono riuscita ad alzarmi la città già era scomparsa. Il bianco, un bianco infinito. Solo io in piedi tra carte stropicciate e milioni di coriandoli bianchi consapevole di aver distrutto tutto. E in quel bianco, sì proprio lì, ho ricominciato a sognare.
19.7.18
L’equilibrio in una sola vita
Quello che ci manca, penso, a volte sono gli spazi.
Spazio visivo per riempire gli occhi di calma. Un tempo per parlare e per alleggerire i pensieri. Aree per respirare che ci permettano di non soccombere alla frenesia. Un posto solo nostro, trincerato, per sentirci vivi, non vissuti da tutto il resto del casino intorno.
Gli spazi bianchi hanno questo di bello. Generano un vuoto che controbilancia un pieno.
Il bar sulla spiaggia è ancora carico di luce. Azzurro nei dettagli, con veli di cotone leggero, che drappeggiano le invisibili pareti. Sono dentro, ma anche fuori e questo mi piace.
È quasi sera, c’è poca gente. Il momento migliore. Mi godo lo spettacolo di una spiaggia calma. La mia sedia blu è girata verso il mare. A piedi nudi con i capelli ancora bagnati mi sento bene. Tutti si stanno cambiando e preparando per la sera. Io no.
Il mare è stanco e calmo come me. Lo guardo e so cosa provo. Il mare fa così. Espone chi siamo senza troppi giri di parole. Pronunciare questa domanda “cosa provi di fronte al mare?”, è rischioso se non siamo disposti ad ascoltare. Ma soprattutto, non fidiamoci di chi non risponde.
Il mare oggi è il pieno e il cielo è il vuoto. Non ci sono le nuvole.
Gli equilibri visivi più belli sono creati dai dettagli, dalla composizione che dinamicamente muove, conduce lo sguardo. Per me, almeno. Magari di colpo. Improvvisamente. Avviene così anche con la scrittura. Con la fotografia. Bisogna far muovere, agitare dentro, solo così scaturisce tutta la bellezza. Quello che si lascia fuori da una composizione grafica, da un testo, da un riquadro di una fotografia è ciò che renderà risolto quel tutto. Sono i vuoti che giocano sapientemente con i pieni a creare l’equilibrio.
Un uomo scende verso la spiaggia. Mentre tutti salgono. Alto, brizzolato, passo tranquillo, di chi ha tempo. È a piedi nudi. Ha una macchina fotografica nella sua mano destra. Come mi piacerebbe avvicinarmi per guardare le sue mani. È sempre una mia curiosità. Leggere le persone dalle mani.
Si guarda intorno e rallenta ulteriormente il passo. Poi si ferma poco vicino alla riva. Lo vedo di spalle, ma secondo me ha chiuso gli occhi un attimo. Fermo così, lo vedo chinare la testa e poi rialzare lo sguardo. Sta guardando l’orizzonte, forse sta individuando un punto. Un preciso punto. Una cosa tra lui e il mare. Dovrei distogliere lo sguardo, ma non ci riesco.
Sorseggio il mio mojito e attendo il momento in cui lo farà. Impugnare la macchina fotografica per guardare da lì il mondo. Niente da fare, si volta verso la spiaggia, credo non mi abbia vista, e si siede.
Arriva una donna. In abito bianco, sotto un costume azzurro che si intravede. I capelli scuri non raccolti. Scende decisa, scalza anche lei, direttamente verso di lui. Si ferma alle sue spalle e attende che sia lui a voltarsi. Poi si siede. Non troppo vicino. Lui allora si sposta un pochino. Impercettibile credo per lei, intenta a trovare una posizione comoda, evidente per me che li osservo da qui. Parlano. Ridono. E guardano il mare. Ognuno nel suo spazio. Senza invasioni. Non sembrano conoscersi da molto, eppure appaiono ai mie occhi come isole di un unico arcipelago.
Noto che più parlano più lo spazio tra di loro diminuisce. I visi si avvicinano, le gambe, le braccia. Eppure non si toccano. Eccolo, lui alza la macchina fotografica e punta l’orizzonte dove stanno volando i gabbiani, un sacco di gabbiani arrivati ora. Colpiscono anche me e li osservo.
Lui si alza in piedi e anche lei. Rimane a qualche passo da lui e lo osserva. Non guarda il mare, ma lui. I gabbiani volano vicini e li avvolgono. Lui scatta. Poi si gira verso di lei. Le dice qualcosa. Lei si avvicina. Credo stiano guardando nel monitor della macchina fotografica. Ecco ora così sono molto vicini. Ho un attimo di scompenso dovuto alle aree di rispetto nel foglio in cui li vedo. Lui allarga il suo braccio sinistro per avvicinarla ancora di più, forse per fare ombra al monitor e veder meglio, e in questo modo, da qui, per metà sembrano abbracciati.
Stanno attraversando uno spazio che forse hanno sempre considerato bianco da non invadere. Almeno così sembra data la lentezza e la delicatezza dei gesti. Il loro abbraccio prosegue e si voltano uno di fronte all’altra, lei ora avvolge lui, le sue gambe sono fra quelle di lui e i visi sono molto vicini, si toccano con le guance. Dietro la schiena di lei la macchina fotografica, tra le mani ferme di lui.
Credo che le stia parlando. Forse si stanno salutando. Lei, che vedo bene da qui, sorride.
Si stanno abbracciando come fanno le parole quando mi vengono a trovare nella mente. Un fluire che converte i margini in passaggi segreti. Li vedo scappare. Sono fermi, ma si stanno allontanando insieme, sono un fermo immagine mentre i miei pensieri evadono.
Rettifico la questione degli spazi. Alcune volte non sono necessari. Anzi, farli saltare è decisamente un piacere. Per capire. Per chiudere un cerchio. Linee bianche su sassi da congiungere anche solo per qualche momento. Alcune volte ci voglio giorni, altri anni.
Trovare l’equilibrio in una sola vita è un’arte.
Spazio visivo per riempire gli occhi di calma. Un tempo per parlare e per alleggerire i pensieri. Aree per respirare che ci permettano di non soccombere alla frenesia. Un posto solo nostro, trincerato, per sentirci vivi, non vissuti da tutto il resto del casino intorno.
Gli spazi bianchi hanno questo di bello. Generano un vuoto che controbilancia un pieno.
Il bar sulla spiaggia è ancora carico di luce. Azzurro nei dettagli, con veli di cotone leggero, che drappeggiano le invisibili pareti. Sono dentro, ma anche fuori e questo mi piace.
È quasi sera, c’è poca gente. Il momento migliore. Mi godo lo spettacolo di una spiaggia calma. La mia sedia blu è girata verso il mare. A piedi nudi con i capelli ancora bagnati mi sento bene. Tutti si stanno cambiando e preparando per la sera. Io no.
Il mare è stanco e calmo come me. Lo guardo e so cosa provo. Il mare fa così. Espone chi siamo senza troppi giri di parole. Pronunciare questa domanda “cosa provi di fronte al mare?”, è rischioso se non siamo disposti ad ascoltare. Ma soprattutto, non fidiamoci di chi non risponde.
Il mare oggi è il pieno e il cielo è il vuoto. Non ci sono le nuvole.
Gli equilibri visivi più belli sono creati dai dettagli, dalla composizione che dinamicamente muove, conduce lo sguardo. Per me, almeno. Magari di colpo. Improvvisamente. Avviene così anche con la scrittura. Con la fotografia. Bisogna far muovere, agitare dentro, solo così scaturisce tutta la bellezza. Quello che si lascia fuori da una composizione grafica, da un testo, da un riquadro di una fotografia è ciò che renderà risolto quel tutto. Sono i vuoti che giocano sapientemente con i pieni a creare l’equilibrio.
Un uomo scende verso la spiaggia. Mentre tutti salgono. Alto, brizzolato, passo tranquillo, di chi ha tempo. È a piedi nudi. Ha una macchina fotografica nella sua mano destra. Come mi piacerebbe avvicinarmi per guardare le sue mani. È sempre una mia curiosità. Leggere le persone dalle mani.
Si guarda intorno e rallenta ulteriormente il passo. Poi si ferma poco vicino alla riva. Lo vedo di spalle, ma secondo me ha chiuso gli occhi un attimo. Fermo così, lo vedo chinare la testa e poi rialzare lo sguardo. Sta guardando l’orizzonte, forse sta individuando un punto. Un preciso punto. Una cosa tra lui e il mare. Dovrei distogliere lo sguardo, ma non ci riesco.
Sorseggio il mio mojito e attendo il momento in cui lo farà. Impugnare la macchina fotografica per guardare da lì il mondo. Niente da fare, si volta verso la spiaggia, credo non mi abbia vista, e si siede.
Arriva una donna. In abito bianco, sotto un costume azzurro che si intravede. I capelli scuri non raccolti. Scende decisa, scalza anche lei, direttamente verso di lui. Si ferma alle sue spalle e attende che sia lui a voltarsi. Poi si siede. Non troppo vicino. Lui allora si sposta un pochino. Impercettibile credo per lei, intenta a trovare una posizione comoda, evidente per me che li osservo da qui. Parlano. Ridono. E guardano il mare. Ognuno nel suo spazio. Senza invasioni. Non sembrano conoscersi da molto, eppure appaiono ai mie occhi come isole di un unico arcipelago.
Noto che più parlano più lo spazio tra di loro diminuisce. I visi si avvicinano, le gambe, le braccia. Eppure non si toccano. Eccolo, lui alza la macchina fotografica e punta l’orizzonte dove stanno volando i gabbiani, un sacco di gabbiani arrivati ora. Colpiscono anche me e li osservo.
Lui si alza in piedi e anche lei. Rimane a qualche passo da lui e lo osserva. Non guarda il mare, ma lui. I gabbiani volano vicini e li avvolgono. Lui scatta. Poi si gira verso di lei. Le dice qualcosa. Lei si avvicina. Credo stiano guardando nel monitor della macchina fotografica. Ecco ora così sono molto vicini. Ho un attimo di scompenso dovuto alle aree di rispetto nel foglio in cui li vedo. Lui allarga il suo braccio sinistro per avvicinarla ancora di più, forse per fare ombra al monitor e veder meglio, e in questo modo, da qui, per metà sembrano abbracciati.
Stanno attraversando uno spazio che forse hanno sempre considerato bianco da non invadere. Almeno così sembra data la lentezza e la delicatezza dei gesti. Il loro abbraccio prosegue e si voltano uno di fronte all’altra, lei ora avvolge lui, le sue gambe sono fra quelle di lui e i visi sono molto vicini, si toccano con le guance. Dietro la schiena di lei la macchina fotografica, tra le mani ferme di lui.
Credo che le stia parlando. Forse si stanno salutando. Lei, che vedo bene da qui, sorride.
Si stanno abbracciando come fanno le parole quando mi vengono a trovare nella mente. Un fluire che converte i margini in passaggi segreti. Li vedo scappare. Sono fermi, ma si stanno allontanando insieme, sono un fermo immagine mentre i miei pensieri evadono.
Rettifico la questione degli spazi. Alcune volte non sono necessari. Anzi, farli saltare è decisamente un piacere. Per capire. Per chiudere un cerchio. Linee bianche su sassi da congiungere anche solo per qualche momento. Alcune volte ci voglio giorni, altri anni.
Trovare l’equilibrio in una sola vita è un’arte.
2.7.18
La mia terra è il mare
Non ho più occhi. Sono nel mare. Non ho più mani per muovere la mia vita. Sono nel mare. Non tutte le vite sono uguali. Ci sono quelle che valgono, mi hanno spiegato, e quelle che non valgono niente. Non ho più gambe per attraversare. Sono nel mare. Le vite che valgono sono quelle dei potenti in affanno tra governi che crollano. Nelle navi che si avvicinano e poi tornano indietro. Negli equilibri invisibili, mentre tutti vedono ricatti. Nella gente che fa ginnastica sulla riva, mentre al largo quella nave già non la vede più nessuno. Non ho più pensieri. Sono nel mare. I miei pensieri e le mie parole non valgono niente. La paura che ho provato non vale niente. La violenza che ho subito non vale niente. Siamo una marea nera, ora lo capisco, che vi fa paura. Arriviamo a rubare e scombinare le vostre tranquillità. Eppure io non voglio rubare nulla. Tutto mi è già stato rubato. E la morte di chi ho amato, mi ha circondato in un vestito pesantissimo. Ho paura del vostro bene e del vostro male. Non sono niente eppure in questo affogare penso all’amore che per la vita io non perderò mai. Perché io per quell’amore ho mosso il mondo. Nessuno è niente. Neppure chi ha ritratto la mano, mentre io cercavo di afferrarla. Non ho più una terra. La mia terra è il mare.
---
A tutte quelle persone che sono solo un numero, quantità da registrare e corpi da recuperare.
A tutte le persone di cui nessuno sa niente e che non hanno voce.
A tutte quelle persone indifese che non si meritano un mondo incapace di proteggerle e di muovere tutti i sistemi per evitargli la morte.
A tutte quelle persone che, senza comprendere, li vorrebbero morti o comunque inesistenti, una sofferenza trasparente.
A me che sento di essere responsabile e impotente e che mi schiero dalla parte di quel mondo che non dimentica quale tipo di umanità, dobbiamo cercare di essere, nel poco tempo di una vita che vale alla fine, solo per il bene che non abbiamo trattenuto.
A tutti quei genitori che si rifiutano di spiegare ai propri figli, quale vita vale e quale no.
Foto di Gianpaolo Bosoni (grazie)
---
A tutte quelle persone che sono solo un numero, quantità da registrare e corpi da recuperare.
A tutte le persone di cui nessuno sa niente e che non hanno voce.
A tutte quelle persone indifese che non si meritano un mondo incapace di proteggerle e di muovere tutti i sistemi per evitargli la morte.
A tutte quelle persone che, senza comprendere, li vorrebbero morti o comunque inesistenti, una sofferenza trasparente.
A me che sento di essere responsabile e impotente e che mi schiero dalla parte di quel mondo che non dimentica quale tipo di umanità, dobbiamo cercare di essere, nel poco tempo di una vita che vale alla fine, solo per il bene che non abbiamo trattenuto.
A tutti quei genitori che si rifiutano di spiegare ai propri figli, quale vita vale e quale no.
Foto di Gianpaolo Bosoni (grazie)
21.6.18
Una sera senza pareti
Ci sono sere in cui tutto scompare. Si allontanano le sensazioni dolorose, le luci troppo forti, le scale difficili da salire, le distanze che scombinano e affannano il cuore e le parole, anche le più piccole e fragili, che è ora di dimenticare.
Questa è una di quelle sere. C’è una strana calma, ma non è presente fuori è sotto la mia pelle. Si fa buio dove prima c’era luce. È una sera senza pareti, aperta e distesa. Inizio a ballare scalza, ci sono corde pizzicate e violini al posto del vento. I capelli raccolti e il collo scoperto, i tamburi che vengono a cercare il mio respiro. La musica è aria che mi gira attorno e io scompaio dal mondo.
- Fanno sempre questo effetto i teatri vuoti?
Riapro gli occhi e le mie fantasie si chiudono.
La sua voce è così vicino che sento le sue labbra sul collo. Le parole le ha appena sussurrate. Potrebbe mordermi, ma so che non lo farà.
Non mi muovo. Se magari lo ignoro, svanirà come ha già fatto altre volte. Anche se poi lontano non lo sento mai, neppure ora che il silenzio è ormai incalcolabile.
Sono in un teatro vuoto. Un piccolo teatro. Cerco la platea nel buio, mentre qui seduta in galleria le uniche luci provengono da fuori e dalle porte socchiuse. Le voci sono distanti e sono rumori di noiosità da dirsi nei tempi d’attesa. Sul palco solo qualche oggetto di scena, una sedia bianca, il sipario aperto e mal tirato.
- Non dovresti stare qui. - Continua lui e mi sfiora la nuca con le dita.
Un brivido come uno sparo mi centra e perde di intensità solo arrivando nelle gambe. Se mi tocca ancora e per sbaglio sollevo i tacchi, penso, probabilmente per l’assenza di massa a terra, mi si incendieranno i capelli.
- Nemmeno tu. - Mi guardo le mani e la mia voce forse l’ho sentita solo io.
- Dovrei portarti subito fuori da qui - È in piedi dietro di me e ha alzato il tono di voce.
- Difficile - Porto una mano sulla nuca, forse per difendermi.
- Non credo, ho doti di convincimento notevoli – sta sorridendo e mi sta guardando, lo sento dalla voce. Non ho dubbi, penso, riferito alle doti.
- Vuoi rimanere qui, quanto me. - mi affretto a dire - Questo teatro al buio è bellissimo. -
In un lampo prende posto accanto a me.
- Hai ragione. - Dio quanto mi è mancato.
- È un luogo carico di attese, visto così. Dove si attende l’inizio. Vedo le persone che prendono posto, il brusio diffuso, chi si sposta, chi gira a vuoto.
Le sue mani si muovono nell’aria di fronte a lui.
- Tu prima a cosa pensavi?
- Al dimenticare - E seguo le sue mani.
- Un teatro ti fa pensare di voler dimenticare? - Ci guardiamo per un attimo.
- Sì.
- Perché?
- È tutta una messa in scena. Quando è il momento si deve cambiare scenografia, dopo aver ripetuto la stessa scena mille volte, avanzare da un luogo all’altro e dimenticare quello che può essere ritenuto inutile. Anche i ricordi scompaiono, se siamo bravi a difenderci.
Guardo le sedie vuote, sono posti da riempire, spazi che continuano ad essere occupati e poi liberati.
- Chissà io che ricordo sono - Dice piano.
Sto in silenzio un attimo.
- Di quelli che vuoi dimenticare, ma non ci riesci e allora li lasci liberi di fare ciò che vogliono. - Mi volto e lo guardo - Anche farti entrare in un teatro vuoto, per immaginati in un’altra vita dove riesci perfettamente a dimenticare. - Distoglie gli occhi. Mi sembra di vederli già svanire.
Quello che accettiamo ci trasforma, ci fa crescere.
Quello che invece continuiamo a non accettare ci incatena e ci impedisce di cambiare.
Chiudo gli occhi. Sciolgo i capelli. Il mondo è tutto nella mia testa e sta ballando scalzo. Musica.
Questa è una di quelle sere. C’è una strana calma, ma non è presente fuori è sotto la mia pelle. Si fa buio dove prima c’era luce. È una sera senza pareti, aperta e distesa. Inizio a ballare scalza, ci sono corde pizzicate e violini al posto del vento. I capelli raccolti e il collo scoperto, i tamburi che vengono a cercare il mio respiro. La musica è aria che mi gira attorno e io scompaio dal mondo.
- Fanno sempre questo effetto i teatri vuoti?
Riapro gli occhi e le mie fantasie si chiudono.
La sua voce è così vicino che sento le sue labbra sul collo. Le parole le ha appena sussurrate. Potrebbe mordermi, ma so che non lo farà.
Non mi muovo. Se magari lo ignoro, svanirà come ha già fatto altre volte. Anche se poi lontano non lo sento mai, neppure ora che il silenzio è ormai incalcolabile.
Sono in un teatro vuoto. Un piccolo teatro. Cerco la platea nel buio, mentre qui seduta in galleria le uniche luci provengono da fuori e dalle porte socchiuse. Le voci sono distanti e sono rumori di noiosità da dirsi nei tempi d’attesa. Sul palco solo qualche oggetto di scena, una sedia bianca, il sipario aperto e mal tirato.
- Non dovresti stare qui. - Continua lui e mi sfiora la nuca con le dita.
Un brivido come uno sparo mi centra e perde di intensità solo arrivando nelle gambe. Se mi tocca ancora e per sbaglio sollevo i tacchi, penso, probabilmente per l’assenza di massa a terra, mi si incendieranno i capelli.
- Nemmeno tu. - Mi guardo le mani e la mia voce forse l’ho sentita solo io.
- Dovrei portarti subito fuori da qui - È in piedi dietro di me e ha alzato il tono di voce.
- Difficile - Porto una mano sulla nuca, forse per difendermi.
- Non credo, ho doti di convincimento notevoli – sta sorridendo e mi sta guardando, lo sento dalla voce. Non ho dubbi, penso, riferito alle doti.
- Vuoi rimanere qui, quanto me. - mi affretto a dire - Questo teatro al buio è bellissimo. -
In un lampo prende posto accanto a me.
- Hai ragione. - Dio quanto mi è mancato.
- È un luogo carico di attese, visto così. Dove si attende l’inizio. Vedo le persone che prendono posto, il brusio diffuso, chi si sposta, chi gira a vuoto.
Le sue mani si muovono nell’aria di fronte a lui.
- Tu prima a cosa pensavi?
- Al dimenticare - E seguo le sue mani.
- Un teatro ti fa pensare di voler dimenticare? - Ci guardiamo per un attimo.
- Sì.
- Perché?
- È tutta una messa in scena. Quando è il momento si deve cambiare scenografia, dopo aver ripetuto la stessa scena mille volte, avanzare da un luogo all’altro e dimenticare quello che può essere ritenuto inutile. Anche i ricordi scompaiono, se siamo bravi a difenderci.
Guardo le sedie vuote, sono posti da riempire, spazi che continuano ad essere occupati e poi liberati.
- Chissà io che ricordo sono - Dice piano.
Sto in silenzio un attimo.
- Di quelli che vuoi dimenticare, ma non ci riesci e allora li lasci liberi di fare ciò che vogliono. - Mi volto e lo guardo - Anche farti entrare in un teatro vuoto, per immaginati in un’altra vita dove riesci perfettamente a dimenticare. - Distoglie gli occhi. Mi sembra di vederli già svanire.
Quello che accettiamo ci trasforma, ci fa crescere.
Quello che invece continuiamo a non accettare ci incatena e ci impedisce di cambiare.
Chiudo gli occhi. Sciolgo i capelli. Il mondo è tutto nella mia testa e sta ballando scalzo. Musica.
24.5.18
Ritmo, risposte e variazioni.
Cammino sulla riva. Molti ancora dormono. Cammino nella falsa solitudine di queste ore.
Il mare è prigioniero della bassa marea, lontano. Le mie impronte incidono la sabbia bagnata. Le guardo. Aggiungo questa immagine, mentalmente, alle mie sicurezze visive. Esisto, adesso.
- Sai cosa significa cogliere il ritmo?
La sua voce sparpaglia di colpo, i miei pensieri. Lo guardo.
Ha il mio stesso passo, avanza con me. Sono rapita dal suo muoversi. Traduco questo sincronismo in sintonia fisica. Forse poi non lo è, ma così sembra. Si innesca un ritmo.
Lo stesso stato d’animo e il modo di respirare sono causa e conseguenza di quello che siamo adesso.
- Sì - Fatico io stessa a sentire la mia voce. Lui si fa più vicino. - Sentirlo, starci dentro. O no?
- Farsi coinvolgere. Avvicinarsi diventa un bisogno. - Dice lui. Ha un tono così basso, che nella mia testa ciò che ha detto, appare come un segreto rivelato solo a me.
Guardo il colore della sabbia e come si divincola l’acqua di mare. “Farsi coinvolgere.” Le sue parole si muovono nella mia testa. “Avvicinarsi diventa un bisogno.” Guardo le onde che non si arrendono e continuano a tornare. Sempre più vicine. Guardo la sua mano non lontano dalla mia e mi chiedo a cosa servono le distanze. Forse a non capirsi.
Non riesco a rispondere. E lui lo sa. La sua voce, ritorna vicina.
- Bisogna essere bravi per cogliere il ritmo delle cose che ci circondano. Spesso il ritmo è confuso nel rumore. C’è talmente tanto rumore che ci perdiamo il meglio.
Lo guardo e lo vedo cercare i miei occhi. E va bene, eccoli, penso, portali dove ti pare.
- Perché mi hai chiesto questa cosa del ritmo?
- Perché ho notato che spesso ti concentri sul rumore. Su quello che non va. Su quello che ti manca. Invece, è importante dare ascolto a quello che ti fa bene.
Ha ragione, penso e mi riprendo gli occhi. Cercare parti di me, è una cosa che non mi passerà mai. E cercare non mi stanca. Scrivere non mi stanca. Aspettare risposte invece sì. Mi fa soffocare, mi rende confusa, mi intrappola dietro a mille porte chiuse e ogni spazio in cui mi muovo ricorda quelle risposte che non ho. Anche le nuvole. Perfino le nuvole.
- Nella calligrafia, sai - riesco a dire lentamente - il ritmo è sostanzialmente mantenere la stessa inclinazione, la stessa forma e dimensione, la stessa proporzione, senza stringere o allargare le lettere. Allenamento e concentrazione è quello che ci vuole.
- Sembra una cosa noiosa.
- Un po’ lo è. Però da ordine.
- Ci scommetto che preferisci i cambi di ritmo. - Lui mi vede anche dietro le parole.
- Sì, è così - e faccio un lungo respiro - Si chiamano variazioni.
Rimane in silenzio un attimo, poi il suo passo cambia. È più veloce. Io quasi rimango indietro.
- E allora corri!
- Cosa? - Sto quasi urlando.
- Corri! - E si mette a correre.
Ha detto corri? Per una volta che non sparisce, non lo lascio andare via così. Corro.
C’è solo un problema, sta correndo più forte di me ed è pure partito prima, il maledetto. Il cuore mi sta chiedendo se ho deciso di morire. Gli rispondo di non fare lo spiritoso e di darsi da fare. Sul più bello, mentre l’ho quasi raggiunto crollo. Mi butto nella sabbia e cerco il mio respiro. Lui si ferma, poi viene verso di me, probabilmente per finirmi, penso. Le variazioni sono così. Sono belle da morire. Rido.
- Sai cosa significa cogliere il ritmo?
La sua voce sparpaglia di colpo, i miei pensieri. Lo guardo.
Ha il mio stesso passo, avanza con me. Sono rapita dal suo muoversi. Traduco questo sincronismo in sintonia fisica. Forse poi non lo è, ma così sembra. Si innesca un ritmo.
Lo stesso stato d’animo e il modo di respirare sono causa e conseguenza di quello che siamo adesso.
- Sì - Fatico io stessa a sentire la mia voce. Lui si fa più vicino. - Sentirlo, starci dentro. O no?
- Farsi coinvolgere. Avvicinarsi diventa un bisogno. - Dice lui. Ha un tono così basso, che nella mia testa ciò che ha detto, appare come un segreto rivelato solo a me.
Guardo il colore della sabbia e come si divincola l’acqua di mare. “Farsi coinvolgere.” Le sue parole si muovono nella mia testa. “Avvicinarsi diventa un bisogno.” Guardo le onde che non si arrendono e continuano a tornare. Sempre più vicine. Guardo la sua mano non lontano dalla mia e mi chiedo a cosa servono le distanze. Forse a non capirsi.
Non riesco a rispondere. E lui lo sa. La sua voce, ritorna vicina.
- Bisogna essere bravi per cogliere il ritmo delle cose che ci circondano. Spesso il ritmo è confuso nel rumore. C’è talmente tanto rumore che ci perdiamo il meglio.
Lo guardo e lo vedo cercare i miei occhi. E va bene, eccoli, penso, portali dove ti pare.
- Perché mi hai chiesto questa cosa del ritmo?
- Perché ho notato che spesso ti concentri sul rumore. Su quello che non va. Su quello che ti manca. Invece, è importante dare ascolto a quello che ti fa bene.
Ha ragione, penso e mi riprendo gli occhi. Cercare parti di me, è una cosa che non mi passerà mai. E cercare non mi stanca. Scrivere non mi stanca. Aspettare risposte invece sì. Mi fa soffocare, mi rende confusa, mi intrappola dietro a mille porte chiuse e ogni spazio in cui mi muovo ricorda quelle risposte che non ho. Anche le nuvole. Perfino le nuvole.
- Nella calligrafia, sai - riesco a dire lentamente - il ritmo è sostanzialmente mantenere la stessa inclinazione, la stessa forma e dimensione, la stessa proporzione, senza stringere o allargare le lettere. Allenamento e concentrazione è quello che ci vuole.
- Sembra una cosa noiosa.
- Un po’ lo è. Però da ordine.
- Ci scommetto che preferisci i cambi di ritmo. - Lui mi vede anche dietro le parole.
- Sì, è così - e faccio un lungo respiro - Si chiamano variazioni.
Rimane in silenzio un attimo, poi il suo passo cambia. È più veloce. Io quasi rimango indietro.
- E allora corri!
- Cosa? - Sto quasi urlando.
- Corri! - E si mette a correre.
Ha detto corri? Per una volta che non sparisce, non lo lascio andare via così. Corro.
C’è solo un problema, sta correndo più forte di me ed è pure partito prima, il maledetto. Il cuore mi sta chiedendo se ho deciso di morire. Gli rispondo di non fare lo spiritoso e di darsi da fare. Sul più bello, mentre l’ho quasi raggiunto crollo. Mi butto nella sabbia e cerco il mio respiro. Lui si ferma, poi viene verso di me, probabilmente per finirmi, penso. Le variazioni sono così. Sono belle da morire. Rido.
12.5.18
Una questione di spigoli
Sto guardando lontano, colta dalla voglia di far confluire tutta la mia attenzione in un punto ben preciso, liberando la mente così da tutto il resto.
- Che cosa fai qui?
- Certo che come sai arrivare tu, nessuno mai…
- Lo prendo come un complimento.
E si siede anche lui, con le gambe penzoloni, sulla terrazza di questo palazzo altissimo.
È quasi ora, il cielo sta cambiando colore.
- Sto aspettando - dico piano, più che altro a me stessa.
- Mi sembra un bel modo di aspettare. Da qui tutto è così piccolo. Divertente il casino che riusciamo a fare noi uomini là sotto.
- Lo trovi divertente?
- Da qui le persone sembrano tutte uguali, piccole figure che corrono di qua e di là. Invece, da vicino uguali non sono affatto. Nemmeno un po’.
- È quella la cosa divertente?
L’aria è già cambiata, è più fredda. Il cielo invece, sembra avvampare e tra poco qualcuno soffierà sulle nuvole per spegnerle. La notte non vuole attendere troppo stasera.
- È divertente scoprire perché le persone riescono a incastrarsi così bene, quando in realtà sono così diverse.
È sempre bello sentirlo rispondere, penso.
- Sarà una questione di spigoli - dico di colpo.
- Di spigoli? - e si fa più vicino.
- Sì di angoli, di punti dove non puoi vedere dall’altra parte.
- Attratti dal mistero, dici?
- No, da quello che è meglio non vedere nell’altro. Vogliamo vedere solo quello che ci va e magari provare a correggere il resto.
L’ho trovato un punto da fissare. Sono due persone che gesticolano. In realtà mi sembra di capire addirittura cosa si stanno dicendo. Lei deve essere proprio arrabbiata. Furiosa direi. Lui ha appena schivato un suo mezzo ceffone. Devo dire che ha una prontezza invidiabile. Voglio vedere come va a finire.
- È un gran bell’inganno quello lì - dice lui e mi guarda, è quasi notte.
- Siamo sempre in mezzo a qualche inganno.
- Direi di sì.
- Sai che se c’è una cosa che proprio detesto, sono gli spigoli?
Lui scoppia a ridere.
I due là sotto, intanto, hanno l’aria di volersi far male a vicenda, va peggio di prima. La gente passa, ma nessuno interviene. Forse lui ha visibilmente l’aspetto di uno che sa cosa sta facendo. Lei anche, ma non troppo. Gesticolano molto. Lei a tratti gli sta a distanza di sicurezza.
E ad un certo punto l’inaspettato. Lui riesce ad afferrarla per le braccia. Io vado in apnea. E la bacia. La bacia, sì. Così, come se niente fosse. Lei colta alla sprovvista, quasi cade all’indietro e si aggrappa alla sua giacca per non cadere. Penso, adesso lei si divincolerà? Invece niente. Gli pesterà un piede? Niente. Lo morderà? Nada. Lo bacia anche lei. Dopo tutto quel casino, lo bacia anche lei. Certo che noi donne siamo proprio un bel rebus. Ricomincio a respirare.
La notte ha invaso tutto e all’improvviso è così bella.
- Preferisco sempre vedere dall’altra parte - dico e intanto penso al fatto che lui è ancora qui.
- Non è sempre possibile.
- Bisognerebbe provarci almeno.
Mi osserva silenzioso. Nel buio, adesso, lo guardo anch’io. È interessante vedere le persone nel buio. Sono diverse da come sono in piena luce.
- A volte sei uno spigolo unico - dice con la sua voce calma e un mezzo sorriso - a volte un bell’orizzonte aperto, come quello là.
Guardo lontano oltre le case, le vie, la gente che cammina, quei due che ancora si stringono, i fari delle auto che folleggiano in un continuo incontro di strade e di altre auto dirette non si sa dove, le nuvole piene di vento e di desiderio che incantano la luna e lo vedo, eccolo, un confine pulito, tra i campi e il cielo blu scuro.
Foto: Graffito di TVBOY (street artist) "Amor populi" nel centro di Roma (ora già rimosso). Matteo Salvini e Luigi Di Maio che si baciano.
- Che cosa fai qui?
- Certo che come sai arrivare tu, nessuno mai…
- Lo prendo come un complimento.
E si siede anche lui, con le gambe penzoloni, sulla terrazza di questo palazzo altissimo.
È quasi ora, il cielo sta cambiando colore.
- Sto aspettando - dico piano, più che altro a me stessa.
- Mi sembra un bel modo di aspettare. Da qui tutto è così piccolo. Divertente il casino che riusciamo a fare noi uomini là sotto.
- Lo trovi divertente?
- Da qui le persone sembrano tutte uguali, piccole figure che corrono di qua e di là. Invece, da vicino uguali non sono affatto. Nemmeno un po’.
- È quella la cosa divertente?
L’aria è già cambiata, è più fredda. Il cielo invece, sembra avvampare e tra poco qualcuno soffierà sulle nuvole per spegnerle. La notte non vuole attendere troppo stasera.
- È divertente scoprire perché le persone riescono a incastrarsi così bene, quando in realtà sono così diverse.
È sempre bello sentirlo rispondere, penso.
- Sarà una questione di spigoli - dico di colpo.
- Di spigoli? - e si fa più vicino.
- Sì di angoli, di punti dove non puoi vedere dall’altra parte.
- Attratti dal mistero, dici?
- No, da quello che è meglio non vedere nell’altro. Vogliamo vedere solo quello che ci va e magari provare a correggere il resto.
L’ho trovato un punto da fissare. Sono due persone che gesticolano. In realtà mi sembra di capire addirittura cosa si stanno dicendo. Lei deve essere proprio arrabbiata. Furiosa direi. Lui ha appena schivato un suo mezzo ceffone. Devo dire che ha una prontezza invidiabile. Voglio vedere come va a finire.
- È un gran bell’inganno quello lì - dice lui e mi guarda, è quasi notte.
- Siamo sempre in mezzo a qualche inganno.
- Direi di sì.
- Sai che se c’è una cosa che proprio detesto, sono gli spigoli?
Lui scoppia a ridere.
I due là sotto, intanto, hanno l’aria di volersi far male a vicenda, va peggio di prima. La gente passa, ma nessuno interviene. Forse lui ha visibilmente l’aspetto di uno che sa cosa sta facendo. Lei anche, ma non troppo. Gesticolano molto. Lei a tratti gli sta a distanza di sicurezza.
E ad un certo punto l’inaspettato. Lui riesce ad afferrarla per le braccia. Io vado in apnea. E la bacia. La bacia, sì. Così, come se niente fosse. Lei colta alla sprovvista, quasi cade all’indietro e si aggrappa alla sua giacca per non cadere. Penso, adesso lei si divincolerà? Invece niente. Gli pesterà un piede? Niente. Lo morderà? Nada. Lo bacia anche lei. Dopo tutto quel casino, lo bacia anche lei. Certo che noi donne siamo proprio un bel rebus. Ricomincio a respirare.
La notte ha invaso tutto e all’improvviso è così bella.
- Preferisco sempre vedere dall’altra parte - dico e intanto penso al fatto che lui è ancora qui.
- Non è sempre possibile.
- Bisognerebbe provarci almeno.
Mi osserva silenzioso. Nel buio, adesso, lo guardo anch’io. È interessante vedere le persone nel buio. Sono diverse da come sono in piena luce.
- A volte sei uno spigolo unico - dice con la sua voce calma e un mezzo sorriso - a volte un bell’orizzonte aperto, come quello là.
Guardo lontano oltre le case, le vie, la gente che cammina, quei due che ancora si stringono, i fari delle auto che folleggiano in un continuo incontro di strade e di altre auto dirette non si sa dove, le nuvole piene di vento e di desiderio che incantano la luna e lo vedo, eccolo, un confine pulito, tra i campi e il cielo blu scuro.
Foto: Graffito di TVBOY (street artist) "Amor populi" nel centro di Roma (ora già rimosso). Matteo Salvini e Luigi Di Maio che si baciano.
5.5.18
La parte meno importante
La forma è un insieme di parametri in grado di determinare un preciso aspetto. Ogni cosa può essere caratterizzata esteriormente e dunque descritta con una forma.
Un meccanismo semplice. Basta mettere insieme le evidenze. Una cosa lineare. Pulita.
Eppure, riflettendo un attimo, tutte le cose semplici hanno alle spalle stratificazioni di complessità risolte. Non è un percorso lineare come sembra, è un percorso dinamico, pieno di curve risolutive, la semplicità.
"La semplicità non è altro che una complessità risolta" affermava lo scultore Constantin Brancusi.
Mi piace pensare al fatto (in realtà è una cosa che faccio da sempre) che non solo le cose possono essere definite con una forma. Anche i paesaggi, le persone, le emozioni, gli aggettivi o i sostantivi e molto altro ancora.
Una forma, una sola forma, ma che può cambiare. Non come per le cose, che ne hanno una e basta. Sembra un gioco, sulla parte meno importante ed esteriore, in realtà per me è una ricerca per comprendere il mondo.
Un meccanismo semplice. Basta mettere insieme le evidenze. Una cosa lineare. Pulita.
Eppure, riflettendo un attimo, tutte le cose semplici hanno alle spalle stratificazioni di complessità risolte. Non è un percorso lineare come sembra, è un percorso dinamico, pieno di curve risolutive, la semplicità.
"La semplicità non è altro che una complessità risolta" affermava lo scultore Constantin Brancusi.
Mi piace pensare al fatto (in realtà è una cosa che faccio da sempre) che non solo le cose possono essere definite con una forma. Anche i paesaggi, le persone, le emozioni, gli aggettivi o i sostantivi e molto altro ancora.
Una forma, una sola forma, ma che può cambiare. Non come per le cose, che ne hanno una e basta. Sembra un gioco, sulla parte meno importante ed esteriore, in realtà per me è una ricerca per comprendere il mondo.
Oggi scelgo la parola "lentezza". Che forma ha la lentezza?
La cosa più semplice è definirla come qualcosa in grado di rallentare il tempo e di tenerlo in ostaggio per un po'. Quel giusto che basta per vederlo sfinito, arreso e determinato a ristabilire nuove regole, nuovi gradi di attesa. Un tempo torturato. Spesso è lui a torturare me.
Un orologio che inizia a girare al contrario mentre tutti gli altri vanno nella direzione giusta. (Giusta poi, non è mica detto.) Un frenare, con il resto attorno che accelera.
Potrebbe essere un filo, che lega il tempo, che si attorciglia intorno alle lancette, che si annoda intorno al pedale del freno. Un filo teso. Che poi si allenta e tutto riparte veloce.
- Un filo teso. Non male.
- Ma sei pazzo? Mi hai fatto prendere un... non si arriva alle spalle delle persone così!
- Mi piace farlo. Si forse un po' pazzo lo sono.
- Mi ucciderai. Non solo un po', se vogliamo essere precisi.
- Non mi hai sentito perché stavi ascoltando la musica ad un volume altissimo. Non è mia intenzione.
- Lo faccio sempre quando scrivo. E che intenzione hai?
- Lo so. Sorprenderti.
- Lodevole la cosa. Il tuo passatempo è andare in giro a sorprendere le persone?
- No, solo te.
- Non hai detto nulla di speciale. L'avevo appena scritto io. Adesso mi commuovo per il "solo te".
- Stavo leggendo. E tu ti stavi chiedendo che cosa avrei pensato io. Se vuoi te lo ridico.
- Non è vero. Basta una volta, grazie.
- Non mentire. Dai fammi la domanda.
- No...
- Per me oggi è un sentiero lunghissimo, che curva e si inoltra in un bosco di notte, dove la luna, sta scrivendo sugli alberi e tra i rami. Segni di luce che nessuno rivedrà domani.
- Ecco.
- Cosa ecco?
- Ecco. Punto. La lentezza è un sentiero?
- Un filo nel bosco. Un camminare lento, attento e con le mani davanti per ripararsi da ciò che non si è pronti a vedere. Pochi suoni, se non il rumore dei miei passi che si fanno largo tra i rami caduti. Il mio respiro nella testa come dopo una lunga corsa. Il tempo che si insinua nei miei passi, rallentando come rallento io. Nel buio come lo sono io.
- Se adesso sparisci, ti ammazzo.
- Detta così ha poco senso. Comunque apprezzo la passione. Vieni anche tu nel bosco. Vedi però di non farmi fuori.
- Mi perdo di giorno, figurarsi di notte in un bosco. Spiritoso, non in quell'ordine.
- Devi solo seguire il sentiero, il filo e rallentare il passo. Ti verrò a prendere. Domani la lentezza sarà qualcosa di diverso.
- Chissà cosa sarà domani. Non mi farò trovare.
- Magari un pennino che striscia sulla carta e disegna onde nere, maree, lettere sconosciute. Un filo d'inchiostro. Ti troverò lo stesso.
- Un filo d'inchiostro è proprio bello. Mi nasconderò nel buio.
- Ti so distinguere anche al buio.
Lo fisso e lui fissa me, come fa sempre, portando via tutto il resto attorno.
Riprendo a scrivere, mentre lui se ne va.
E ci risiamo.
"Abbraccio" di Paul Klee
La cosa più semplice è definirla come qualcosa in grado di rallentare il tempo e di tenerlo in ostaggio per un po'. Quel giusto che basta per vederlo sfinito, arreso e determinato a ristabilire nuove regole, nuovi gradi di attesa. Un tempo torturato. Spesso è lui a torturare me.
Un orologio che inizia a girare al contrario mentre tutti gli altri vanno nella direzione giusta. (Giusta poi, non è mica detto.) Un frenare, con il resto attorno che accelera.
Potrebbe essere un filo, che lega il tempo, che si attorciglia intorno alle lancette, che si annoda intorno al pedale del freno. Un filo teso. Che poi si allenta e tutto riparte veloce.
- Un filo teso. Non male.
- Ma sei pazzo? Mi hai fatto prendere un... non si arriva alle spalle delle persone così!
- Mi piace farlo. Si forse un po' pazzo lo sono.
- Mi ucciderai. Non solo un po', se vogliamo essere precisi.
- Non mi hai sentito perché stavi ascoltando la musica ad un volume altissimo. Non è mia intenzione.
- Lo faccio sempre quando scrivo. E che intenzione hai?
- Lo so. Sorprenderti.
- Lodevole la cosa. Il tuo passatempo è andare in giro a sorprendere le persone?
- No, solo te.
- Non hai detto nulla di speciale. L'avevo appena scritto io. Adesso mi commuovo per il "solo te".
- Stavo leggendo. E tu ti stavi chiedendo che cosa avrei pensato io. Se vuoi te lo ridico.
- Non è vero. Basta una volta, grazie.
- Non mentire. Dai fammi la domanda.
- No...
- Per me oggi è un sentiero lunghissimo, che curva e si inoltra in un bosco di notte, dove la luna, sta scrivendo sugli alberi e tra i rami. Segni di luce che nessuno rivedrà domani.
- Ecco.
- Cosa ecco?
- Ecco. Punto. La lentezza è un sentiero?
- Un filo nel bosco. Un camminare lento, attento e con le mani davanti per ripararsi da ciò che non si è pronti a vedere. Pochi suoni, se non il rumore dei miei passi che si fanno largo tra i rami caduti. Il mio respiro nella testa come dopo una lunga corsa. Il tempo che si insinua nei miei passi, rallentando come rallento io. Nel buio come lo sono io.
- Se adesso sparisci, ti ammazzo.
- Detta così ha poco senso. Comunque apprezzo la passione. Vieni anche tu nel bosco. Vedi però di non farmi fuori.
- Mi perdo di giorno, figurarsi di notte in un bosco. Spiritoso, non in quell'ordine.
- Devi solo seguire il sentiero, il filo e rallentare il passo. Ti verrò a prendere. Domani la lentezza sarà qualcosa di diverso.
- Chissà cosa sarà domani. Non mi farò trovare.
- Magari un pennino che striscia sulla carta e disegna onde nere, maree, lettere sconosciute. Un filo d'inchiostro. Ti troverò lo stesso.
- Un filo d'inchiostro è proprio bello. Mi nasconderò nel buio.
- Ti so distinguere anche al buio.
Lo fisso e lui fissa me, come fa sempre, portando via tutto il resto attorno.
Riprendo a scrivere, mentre lui se ne va.
E ci risiamo.
"Abbraccio" di Paul Klee
Iscriviti a:
Post (Atom)