19.7.18

L’equilibrio in una sola vita

Quello che ci manca, penso, a volte sono gli spazi.
Spazio visivo per riempire gli occhi di calma. Un tempo per parlare e per alleggerire i pensieri. Aree per respirare che ci permettano di non soccombere alla frenesia. Un posto solo nostro, trincerato, per sentirci vivi, non vissuti da tutto il resto del casino intorno.

Gli spazi bianchi hanno questo di bello. Generano un vuoto che controbilancia un pieno.

Il bar sulla spiaggia è ancora carico di luce. Azzurro nei dettagli, con veli di cotone leggero, che drappeggiano le invisibili pareti. Sono dentro, ma anche fuori e questo mi piace.

È quasi sera, c’è poca gente. Il momento migliore. Mi godo lo spettacolo di una spiaggia calma. La mia sedia blu è girata verso il mare. A piedi nudi con i capelli ancora bagnati mi sento bene. Tutti si stanno cambiando e preparando per la sera. Io no.

Il mare è stanco e calmo come me. Lo guardo e so cosa provo. Il mare fa così. Espone chi siamo senza troppi giri di parole. Pronunciare questa domanda “cosa provi di fronte al mare?”, è rischioso se non siamo disposti ad ascoltare. Ma soprattutto, non fidiamoci di chi non risponde.

Il mare oggi è il pieno e il cielo è il vuoto. Non ci sono le nuvole.

Gli equilibri visivi più belli sono creati dai dettagli, dalla composizione che dinamicamente muove, conduce lo sguardo. Per me, almeno. Magari di colpo. Improvvisamente. Avviene così anche con la scrittura. Con la fotografia. Bisogna far muovere, agitare dentro, solo così scaturisce tutta la bellezza. Quello che si lascia fuori da una composizione grafica, da un testo, da un riquadro di una fotografia è ciò che renderà risolto quel tutto. Sono i vuoti che giocano sapientemente con i pieni a creare l’equilibrio.

Un uomo scende verso la spiaggia. Mentre tutti salgono. Alto, brizzolato, passo tranquillo, di chi ha tempo. È a piedi nudi. Ha una macchina fotografica nella sua mano destra. Come mi piacerebbe avvicinarmi per guardare le sue mani. È sempre una mia curiosità. Leggere le persone dalle mani.

Si guarda intorno e rallenta ulteriormente il passo. Poi si ferma poco vicino alla riva. Lo vedo di spalle, ma secondo me ha chiuso gli occhi un attimo. Fermo così, lo vedo chinare la testa e poi rialzare lo sguardo. Sta guardando l’orizzonte, forse sta individuando un punto. Un preciso punto. Una cosa tra lui e il mare. Dovrei distogliere lo sguardo, ma non ci riesco.

Sorseggio il mio mojito e attendo il momento in cui lo farà. Impugnare la macchina fotografica per guardare da lì il mondo. Niente da fare, si volta verso la spiaggia, credo non mi abbia vista, e si siede.

Arriva una donna. In abito bianco, sotto un costume azzurro che si intravede. I capelli scuri non raccolti. Scende decisa, scalza anche lei, direttamente verso di lui. Si ferma alle sue spalle e attende che sia lui a voltarsi. Poi si siede. Non troppo vicino. Lui allora si sposta un pochino. Impercettibile credo per lei, intenta a trovare una posizione comoda, evidente per me che li osservo da qui. Parlano. Ridono. E guardano il mare. Ognuno nel suo spazio. Senza invasioni. Non sembrano conoscersi da molto, eppure appaiono ai mie occhi come isole di un unico arcipelago.

Noto che più parlano più lo spazio tra di loro diminuisce. I visi si avvicinano, le gambe, le braccia. Eppure non si toccano. Eccolo, lui alza la macchina fotografica e punta l’orizzonte dove stanno volando i gabbiani, un sacco di gabbiani arrivati ora. Colpiscono anche me e li osservo.
Lui si alza in piedi e anche lei. Rimane a qualche passo da lui e lo osserva. Non guarda il mare, ma lui. I gabbiani volano vicini e li avvolgono. Lui scatta. Poi si gira verso di lei. Le dice qualcosa. Lei si avvicina. Credo stiano guardando nel monitor della macchina fotografica. Ecco ora così sono molto vicini. Ho un attimo di scompenso dovuto alle aree di rispetto nel foglio in cui li vedo. Lui allarga il suo braccio sinistro per avvicinarla ancora di più, forse per fare ombra al monitor e veder meglio, e in questo modo, da qui, per metà sembrano abbracciati.

Stanno attraversando uno spazio che forse hanno sempre considerato bianco da non invadere. Almeno così sembra data la lentezza e la delicatezza dei gesti. Il loro abbraccio prosegue e si voltano uno di fronte all’altra, lei ora avvolge lui, le sue gambe sono fra quelle di lui e i visi sono molto vicini, si toccano con le guance. Dietro la schiena di lei la macchina fotografica, tra le mani ferme di lui.

Credo che le stia parlando. Forse si stanno salutando. Lei, che vedo bene da qui, sorride.

Si stanno abbracciando come fanno le parole quando mi vengono a trovare nella mente. Un fluire che converte i margini in passaggi segreti. Li vedo scappare. Sono fermi, ma si stanno allontanando insieme, sono un fermo immagine mentre i miei pensieri evadono.

Rettifico la questione degli spazi. Alcune volte non sono necessari. Anzi, farli saltare è decisamente un piacere. Per capire. Per chiudere un cerchio. Linee bianche su sassi da congiungere anche solo per qualche momento. Alcune volte ci voglio giorni, altri anni.
Trovare l’equilibrio in una sola vita è un’arte.


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